"Quest'anno io vuole imparare italiano bene".



Immagino che tutti, ormai, sarete a conoscenza del caso editoriale scatenato in questi giorni da questa vignetta contenuta in un libro di testo per bambini della  scuola primaria.
Molti hanno scritto la propria opinione sull'accaduto concordando, nella maggior parte dei casi, sul cattivo gusto, sulla mancanza di  empatia (si sono chiesti come reagirà emotivamente il bambino straniero che la leggerà?) e soprattutto sull'accettazione inconscia di uno stereotipo razzista troppo consolidato.
Tralasciando quindi i punti già ampiamente sviluppati da chi mi ha preceduto, io voglio invece lanciarvi una provocazione.
Non posso fare a meno di chiedermi come avremmo reagito se l'immagine avesse riportato anche  un compagno, dalle sembianze "occidentali", che replicava in questo modo: "Anche la mia mamma e il mio papà dovrebbero impararlo meglio. Magari proverò ad aiutarli io"
Provo a spiegarmi meglio. 
Lo stereotipo razzista porta a dare per scontato che un bambino di colore (o comunque straniero), inserito in una classe scolastica italiana, sia predestinato a  parlare in terza persona, senza alcuna consapevolezza   delle strutture linguistiche del paese in cui vive e in cui, con molta probabilità, è nato e cresciuto. Poco importa se ha imparato in pochissimi mesi (se non giorni)  quel "poco" che molti imparano dopo anni di studio. Poco importa se  nella classe in cui è inserito i compagni italiani parlano un italiano peggiore (cosa purtroppo non rara).
Come prevedibile, la vignetta ha suscitato una reazione a catena che, partendo da uno o più genitori, si è diffusa in tutta Italia in pochissime ore grazie al potere inconfutabile dei social.
Come prevedibile, appunto.
L'indiscutibile prevedibilità di questa reazione rende ancora più incomprensibile la "svista" della casa editrice (Gruppo editoriale Raffaello) che, comunque, ha subito presentato pubblicamente le proprie scuse sostituendo la vignetta in questione con una contenente una frase "politicamente corretta".
Ma torniamo alla mia domanda iniziale. Se la risposta del compagno italiano avesse fatto riferimento a lacune linguistiche dei propri italianissimi genitori, come avremmo reagito? 
Se, al posto di una comune scena di gioco tra bambini, il libro avesse riportato la schermata di una delle tante chat dei gruppi delle mamme o, peggio, i messaggi privati di alcuni docenti, cosa sarebbe successo?
Non possiamo saperlo perchè, ad oggi, per quanto ne sappia io, nessun libro di grammatica usa  esempi di questo tipo (in caso contrario, segnalatemeli).
Mi sono chiesta perchè e ho provato a darmi una spiegazione che provo a riassumere in due punti essenziali:
1. non siamo capaci di ironia, per cui preferiamo ridere degli altri piuttosto che con gli altri. Se la vignetta avesse riportato una carenza grammaticale di gente nostrana non ci sarebbe stato nulla di offensivo nè di stereotipato ma avremmo corso altri rischi che ci portano al punto 2;
2. abbiamo paura dell'autoironia. Spesso evitiamo di  prenderci gioco pubblicamente  dei nostri difetti perchè temiamo che questo ci esponga al rischio di essere svalutati e denigrati. Per questo preferiamo nascondere anche difetti fin troppo vistosi, dimenticando che questo, ahimè, sortisce l'effetto contrario di metterci ancor più in ridicolo.
Da qui nasce la mia personalissima risposta: è più comodo riportare la frase sgrammaticata di un bambino straniero piuttosto che gli orrendi strafalcioni linguistici dei nostri adulti, specialmente se parliamo di adulti scolarizzati se non, addirittura, responsabili della scolarizzazione altrui. Evidenziare l'ignoranza nostrana metterebbe in dubbio l'intero sistema scolastico che dietro un doveroso innalzamento dell'obbligo scolastico cela una profonda incapacità di trasformare quest'obbligo in reale diritto allo studio. La nostra scuola offre una programmazione intensa ma spesso inadeguata ai bambini e ai ragazzi perchè non sempre ne rispetta tempi e modalità di apprendimento, per cui spesso e volentieri costringe gli insegnanti a correre tralasciando molti elementi di base.
E le chat private, ahimè, ci danno prove inconfutabili, e semipermanenti, di questo accumulo seriale di lacune. La corsa al contenuto lascia indietro l'uso corretto del congiuntivo o della punteggiatura che, occorre ricordarlo, non sono elementi accessori ma fondamentali e funzionali a una comunicazione efficace. Lo stesso discorso si potrebbe estendere allo studio della matematica dove si richiede ai bambini di giungere alle divisioni con un numero imprecisato di cifre senza prima aver verificato che sappiano adeguatamente le tabelline.
Per concludere, quindi, voglio augurarmi che questa e le tante altre vicende editoriali che sono sorte in questi giorni (non commento neanche la lettura in cui il bambino chiede alla compagna «Sei nera o sei sporca?» perchè si commenta da sè) ci portino a riflettere su quanto lavoro dobbiamo ancora fare per costruire un mondo che valorizzi l'integrazione, che sia capace di pesare le parole per evitare di schiacciare, che preferisca l'umiltà alla presunzione e scelga di ironizzare per ridere in modo sano piuttosto  che deridere.

 

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